Lavorare al corpo nella boxe

 

Dr. Marco Inghilleri

 

Nel pugilato, colpire al corpo è una scelta di metodo, non di spettacolo. È un gesto che parla il linguaggio della strategia, della fisiologia e della psicologia applicata alla prestazione. Chi osserva il combattimento con occhi esperti sa che quei colpi bassi, silenziosi, poco appariscenti, sono spesso il vero punto di rottura.

Il corpo come bersaglio strategico

L’obiettivo del lavoro al corpo è duplice: da un lato, indebolire la funzionalità dell’organismo – riducendo la capacità respiratoria, la mobilità delle gambe, il tono muscolare – dall’altro, intaccare la continuità dell’impegno mentale. Quando il diaframma si contrae per un colpo al fegato, non è solo il fiato a mancare: è il pensiero che si interrompe, la concentrazione che si disperde.

Questo processo non è mai immediato. Si costruisce round dopo round, colpo dopo colpo, fino a modificare la postura dell’avversario, il ritmo delle sue scelte, la sua disponibilità a sostenere l’impegno. È un logoramento progressivo, simile a ciò che, nel lavoro clinico con gli atleti, si osserva nei contesti di pressione protratta: l’indebolimento delle risorse adattive sotto carico continuo.

Una forma di pressione selettiva

I colpi al corpo funzionano perché si accumulano. Non richiedono forza brutale, ma precisione: si lavora sugli angoli, sui tempi, sulle aperture minime. A livello psicologico, questo significa ridurre i margini di manovra cognitivi dell’avversario. I suoi schemi di risposta diventano sempre più rigidi, prevedibili, inefficienti. È come forzare un sistema complesso a operare con risorse ridotte, fino al blocco.

Nel linguaggio della psicologia dello sport, potremmo definirlo un deterioramento funzionale della prestazione sotto pressione persistente. Il corpo cede prima della volontà, ma porta con sé anche il senso di controllo, il progetto d’azione, la fiducia nell’efficacia dei propri mezzi.

I maestri del corpo: esempi tecnici

Nella storia della boxe, alcuni atleti hanno fatto di questa strategia un’arte. Julio César Chávez era un demolitorio paziente: avanzava come un metronomo, colpendo al costato fino a spegnere il motore dell’avversario. Roberto Durán lavorava a distanza ravvicinata, usando la leva del tronco per piegare la resistenza fisica e mentale del rivale. Canelo Álvarez, nel pugilato contemporaneo, ha trasformato questa lezione in una sintesi moderna: attacchi brevi, rapidi, mirati, con effetti cumulativi devastanti.

Non è la potenza in sé a fare la differenza, ma l’intelligenza tattica. È la capacità di sottrarre spazio decisionale, di comprimere il tempo di risposta, di spostare il combattimento su un piano in cui l’altro non è più in grado di sostenere la propria struttura.

Il corpo come punto di rottura

Sul piano psicologico, ciò che il lavoro al corpo mostra è che la tenuta di un atleta non si misura solo nel momento critico, ma nella capacità di reggere una pressione strutturata, metodica, senza cedimenti funzionali. Quando il corpo inizia a proteggersi da solo – abbassando le braccia, rallentando – lo fa perché le risorse sono ormai prossime all’esaurimento.

Non è il trauma acuto a determinare il crollo, ma il progressivo svuotamento della disponibilità a restare nella lotta. In questo senso, colpire al corpo non significa umiliare, ma portare l’altro al limite della propria sostenibilità, fino alla decisione – conscia o implicita – di non opporre più resistenza.

Conclusione: vincere togliendo possibilità

Chi sa colpire il corpo sa costruire vittorie che non dipendono dal caso. Lavora per sottrazione: riduce l’efficienza dell’avversario, limita la sua autonomia d’azione, costringe a una resa che è insieme fisiologica e psicologica.
È una lezione importante anche fuori dal ring: la forza non è ciò che abbatte, ma ciò che costringe l’altro a non potersi più difendere.

 

Bibliografia di riferimento

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Weinberg, R., & Gould, D. (2020). Foundations of Sport and Exercise Psychology (7th ed.). Human Kinetics.

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